La ginestra o il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nel 1836 e pubblicata postuma nellʼedizione dei Canti del 1845. Rappresenta il momento culminante della poetica leopardiana e una sorta di testamento spirituale del poeta.
I STROFA. Il canto si apre con la descrizione di un paesaggio, le pendici del Vesuvio, su cui fiorisce la Ginestra. Il luogo al poeta sembra il più adatto a dimostrare la sua tesi di una natura"matrigna", indifferente alle sorti umane, e della pochezza dellʼuomo, che nulla può contro di lei. Da qui lo spunto polemico contro le idee del secolo, che esaltano "le magnifiche sorti e progressive" dellʼumanità, affidate al progresso scientifico, economico e sociale.
II STROFA. Leopardi si rivolge alla sua età chiamandola "secol superbo e sciocco", e le rimprovera di aver abbandonato la via del pensiero moderno, "risorto" col Rinascimento dopo la barbarie e la superstizione medievale e sviluppatosi fino ai traguardi dellʼIlluminismo. Lʼetà moderna arretra davanti alle scoperte del pensiero razionalista e materialista, perchè rifiuta la verità della sorte infelice e della scarsa importanza assegnati allʼuomo dalla natura, e vilmente si aggrappa agli inganni della religione.
III STROFA. Il poeta ritiene che chi esalta la condizione umana e promette un futuro luminoso di progresso ("eccelsi fati e nove felicità") non sia uno spirito grande, ma uno stolto. Di contro la vera nobiltà dʼanimo consiste nel guardare coraggiosamente in faccia il destino comune, nel dichiarare la verità sulla umana miseria, senza togliere nulla al vero, nel sopportare la sofferenza con animo "grande e forte", nel mostrarsi solidale con gli altri uomini. Le ragioni profonde di questa solidarietà stanno nel riconoscere che la vera causa del male non sta negli altri uomini, ma nella natura "che dè mortali / madre è di pianto e di voler matrigna". Ne consegue che il saggio considera gli uomini tutti alleati tra loro, tutti li ama ed è pronto a soccorrerli e a chiedere il loro aiuto. La solidarietà umana, in un atteggiamento di resistenza contra l'empia natura", rappresenta lʼunica forma di progresso possibile: anche se non elimina la condizione di infelicità esistenziale dellʼuomo, permette una società più giusta e più civile, garante di valori come la rettitudine, la giustizia, la compassione.
Nella IV strofa il poeta torna al paesaggio desolato dellʼinizio, e si rappresenta seduto sulla lava pietrificata di notte. La vista del cielo stellato, che si specchia nel mare, gli suggerisce una profonda meditazione-contemplazione sullʼuniverso infinito, in cui non solo lʼuomo, ma la terra e lʼintero sistema solare sono grandezze insignificanti. Eppure, di fronte a queste verità accertate dalla scienza, lʼuomo continua a proclamarsi signore e fine dellʼuniverso, in una visione antropocentrica ormai insostenibile; persino lʼetà moderna, che sembra superare tutte le altre in conoscenze e civiltà, torna a rinnovare queste pericolose illusioni, queste "superbe fole".
Nella V strofa ritorna il motivo del potere distruttivo della natura, illustrato questa volta dalla similitudine tra "un piccol pomo" che, cadendo dallʼalbero, distrugge un formicaio, e lʼeruzione del Vesuvio, che ha distrutto Ercolano e Pompei. Il poeta conclude che la natura non ha più riguardo per lʼuomo che per la formica, ma mostra per tutte le creature la stessa indifferenza.
VI STROFA. La riflessione si sposta sul tempo. Sono passati mille e ottocento anni, dice il poeta, dalla catastrofe, eppure ancor oggi il contadino che abita le pendici del vulcano osserva con timore la "vetta / fatal, che... ancor siede tremenda, ancor minaccia" ed è pronto a fuggire, abbandonando la casa e i poveri averi, al manifestarsi di indizi di pericolo. Torna alla luce, grazie agli scavi archeologici, "l'estinta / Pompei come sepolto / scheletro", e la "cresta fumante" del Vesuvio pare ancora minacciare le sue sparse rovine. Così, conclude il poeta, mentre passano i secoli, cadono regni, lingue, popoli, culture, la natura resta sempre giovane e se si evolve, lo fa in tempi così lenti da sembrare immobile. Eppure lʼuomo pretende di essere eterno.
VII STROFA. Il canto si conclude in modo “circolare”: il poeta, come nellʼapertura, si rivolge alla ginestra, che adorna il terreno desolato, in attesa di soccombere alla violenza della lava. Lʼarbusto fiorito rappresenta la sorte comune delle creature, destinate a chinare il capo alle crudeli leggi della natura. Tuttavia la pianta gentile appare più saggia dellʼuomo e rappresenta per lui un modello, in quanto pare aver accettato con dignità il suo destino.
I STROFA. Il canto si apre con la descrizione di un paesaggio, le pendici del Vesuvio, su cui fiorisce la Ginestra. Il luogo al poeta sembra il più adatto a dimostrare la sua tesi di una natura
II STROFA. Leopardi si rivolge alla sua età chiamandola "secol superbo e sciocco", e le rimprovera di aver abbandonato la via del pensiero moderno, "risorto" col Rinascimento dopo la barbarie e la superstizione medievale e sviluppatosi fino ai traguardi dellʼIlluminismo. Lʼetà moderna arretra davanti alle scoperte del pensiero razionalista e materialista, perchè rifiuta la verità della sorte infelice e della scarsa importanza assegnati allʼuomo dalla natura, e vilmente si aggrappa agli inganni della religione.
III STROFA. Il poeta ritiene che chi esalta la condizione umana e promette un futuro luminoso di progresso ("eccelsi fati e nove felicità"
Nella IV strofa il poeta torna al paesaggio desolato dellʼinizio, e si rappresenta seduto sulla lava pietrificata di notte. La vista del cielo stellato, che si specchia nel mare, gli suggerisce una profonda meditazione-contemplazione sullʼuniverso infinito, in cui non solo lʼuomo, ma la terra e lʼintero sistema solare sono grandezze insignificanti. Eppure, di fronte a queste verità accertate dalla scienza, lʼuomo continua a proclamarsi signore e fine dellʼuniverso, in una visione antropocentrica ormai insostenibile; persino lʼetà moderna, che sembra superare tutte le altre in conoscenze e civiltà, torna a rinnovare queste pericolose illusioni, queste "superbe fole".
Nella V strofa ritorna il motivo del potere distruttivo della natura, illustrato questa volta dalla similitudine tra "un piccol pomo" che, cadendo dallʼalbero, distrugge un formicaio, e lʼeruzione del Vesuvio, che ha distrutto Ercolano e Pompei. Il poeta conclude che la natura non ha più riguardo per lʼuomo che per la formica, ma mostra per tutte le creature la stessa indifferenza.
VI STROFA. La riflessione si sposta sul tempo. Sono passati mille e ottocento anni, dice il poeta, dalla catastrofe, eppure ancor oggi il contadino che abita le pendici del vulcano osserva con timore la "vetta / fatal, che... ancor siede tremenda, ancor minaccia"
VII STROFA. Il canto si conclude in modo “circolare”: il poeta, come nellʼapertura, si rivolge alla ginestra, che adorna il terreno desolato, in attesa di soccombere alla violenza della lava. Lʼarbusto fiorito rappresenta la sorte comune delle creature, destinate a chinare il capo alle crudeli leggi della natura. Tuttavia la pianta gentile appare più saggia dellʼuomo e rappresenta per lui un modello, in quanto pare aver accettato con dignità il suo destino.
Fabrizio G. Vaccaro
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