giovedì 29 agosto 2013

ROMPERE IL SILENZIO IN ISRAELE


"È la norma. Mantenere un comportamento aggressivo e violento nei confronti della popolazione palestinese è la norma. Questo valeva per la mia compagnia e per tutte le altre. Ti spiegano sin dal primo giorno in cui prendi servizio che più aggressivo ti mostri e più rispetto otterrai dagli arabi".

Gil Hillel, ex soldatessa della polizia militare israeliana, desidera raccontare i giorni che da militare delle forze di occupazione ha trascorso a Hebron. Per la precisione nella zona H2 di Hebron, la parte della città palestinese rimasta sotto il controllo di Israele dopo gli accordi siglati negli anni Novanta da Benyamin Netanyahu (al suo primo incarico da premier) e lo scomparso presidente palestinese Yasser Arafat. In quella zona poche centinaia di coloni, giunti dopo l'occupazione nel 1967, dettano legge su oltre 20mila palestinesi, all'ombra della protezione garantita dall'Esercito. Gil Hillel arriva all'incontro con il manifesto con un'altra ex soldatessa, Adi Mazor, e con Yuli Novak di Breaking the Silence, l'associazione che da qualche anno offre ai soldati israeliani la possibilità di "rompere il silenzio" pubblicamente e di raccontare le vessazioni, gli abusi, le violenze che subiscono i palestinesi sotto occupazione.

Dalla parte degli occupati Gil e Adi sono due giovani sulla trentina. Prima del nostro incontro sono state a Hebron per un giro di conoscenza con Breaking the Silence, questa volta per stare dalla parte dei palestinesi e non degli occupanti. Entrambe hanno prestato servizio in Cisgiordania, entrambe hanno fatto parte di unità di combattimento.

In Israele le donne sono soggette alla leva obbligatoria ma solo le volontarie, le più motivate, vengono inviate nelle "aree operative", così come sono definiti i Territori palestinesi occupati. "La mia è una famiglia semplice e nazionalista, fondata su solidi principi sionisti - racconta Gil - Quando ho detto ai miei genitori che intendevo far parte di una unità di combattimento e servire in Cisgiordania hanno reagito con sentimenti contrastanti. Erano preoccupati ma anche orgogliosi della mia scelta". A Hebron, prosegue l'ex soldatessa, "arrivai con l'intenzione di svolgere i miei compiti con zelo e senza esitazioni. Indossai la divisa con l'idea che in quella città avrei protetto il mio Paese dal terrorismo, dalla minaccia araba. Quelle cose che ti dicono sin da piccolo, ovunque, in tante occasioni".

Gil dice di ricordare ancora l'emozione che provò quando il suo comandante annunciò a tutti che quel giorno lei, la giovane soldatessa appena arrivata, avrebbe partecipato al giro di pattugliamento nella casbah di Hebron. "Non riuscivo a crederci, era un tale onore per una donna soldato ancora inesperta". Quel giorno però accade qualcosa che avrebbe aperto a Gil gli occhi su quella realtà. "Procedevamo nella casbah - dice - i negozi palestinesi in gran parte erano chiusi e in giro si incontravano poche persone con lo sguardo basso, che sembravano temerci. Non mi sembravano dei terroristi ma ricordavo l'ammonimento che in modo esplicito o con mezze parole ci avevano ripetuto durante l'addestramento: gli arabi sono potenziali terroristi".

A un certo punto, prosegue Gil, "due dei miei compagni di pattuglia fermarono un giovane. Gli chiesero i documenti, lui tirò fuori la carta di identità. Dopo un po' lo incalzarono con tante domande, lui rispondeva alzando la voce. Fu in quel momento che lo spinsero dentro un vicolo e cominciarono a pestarlo, calci e schiaffoni per un paio di minuti. Poi lo lasciarono andare e noi proseguimmo il nostro giro come se nulla fosse accaduto".

La soldatessa rimase in silenzio. Una volta tornata alla base si rivolse al comandante. "Gli chiesi i motivi di quel pestaggio. Quel palestinese era pericoloso, era stato segnalato? E se era un terrorista perché lo avevano lasciato andare senza arrestarlo. Mi rispose perentorio di far silenzio e di eseguire gli ordini. Qualche giorno dopo mi disse che "chi fa troppe domande non torna a casa in licenza e resta di guardia nella base". Rimasi in silenzio, mi mancavano i miei fratelli, i miei genitori, volevo rivederli".

Quel silenzio sarebbe durato alcuni anni. Gil Hillel lo ha rotto solo di recente. Non per motivazioni politiche. Perché, ci spiega, è giusto raccontare la realtà dell'occupazione e ciò che subiscono i palestinesi."Amo Israele ma quello che ho visto quel giorno e nel periodo successivo a Hebron mi ha aperto gli occhi. I palestinesi non sono un popolo di terroristi ma persone come noi, che vogliono vivere in libertà. Noi li stiamo opprimendo, in ogni modo, e io ho il dovere di dirlo alla mia gente, alla mia società. A Hebron il nostro compito non è mantenere la sicurezza ma comportarci come guardie del corpo dei coloni che non esitano a commettere abusi e violenze contro la popolazione araba". Breaking the Silence, conclude l'ex soldatessa, "mi ha dato la possibilità di rivelare tutto questo agli israeliani e al resto del mondo. Non si può più tacere".


di Michele Giorgio - Il Manifesto

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