domenica 4 marzo 2012

SIRIA-LIBIA: DUE PESI, DUE MISURE.

foto tratta da www.felt.de
Il 19 marzo 2011 le forze Nato sferrarono il primo attacco aereo in Libia, a seguito di un dibattito durato varie settimane riguardo la necessità di un intervento armato nel paese di Gheddafi, teatro di un intenso scontro tra i ribelli della regione di Bengasi e gli uomini fedeli al dittatore. Gli Alleati giustificarono il loro comportamento affermando di voler arrestare la repressione condotta dal Colonnello, il quale aveva mobilitato l'esercito per far fronte alla rivolta che, sulla scia degli eventi accaduti in Tunisia ed Egitto, era divampata nel paese.
Allo stesso tempo, in Siria, il presidente Bashar al-Asad fronteggiava con mano pesante i disordini scoppiati in varie citta, provocando, secondo le stime, alcune migliaia di morti e arrestando decine di migliaia di persone. Le richieste dei manifestanti siriani erano grosso modo le stesse dei loro omologhi libici: la fine del monopartitismo, l'indizione di libere elezioni, maggiori libertà individuali, rispetto e tutela dei diritti umani, diminuzione del potere dell'esercito.
A distanza di quasi un anno dall'intervento in Libia, la situazione in Siria non è cambiata: la repressione del regime alauita continua, come testimoniano le notizie dei vari massacri compiuti dall'esercito e dalle forze fedeli al governo, mentre Stati Uniti ed Unione Europea non hanno ancora stabilito un piano d'azione. La domanda sorge quindi spontanea: perché non si interviene in Siria? La repressione in quest'ultimo paese non presenta differenze con quella condotta da Gheddafi, poiché si assiste a ripetute violazioni dei diritti umani, vengono utilizzati i tank contro i manifestanti e qualsiasi protesta condotta contro il regime alauita viene soffocata nel sangue.
La giustificazione dell'attacco alla Libia fu la dura repressione contro i civili che manifestavano contro il regime del Colonnello e il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali. Al contrario, gli "Amici della Siria" organizzano meeting con i leader arabi, propongono la costituzione di un "forum umanitario", una raccolta fondi - sempre per fini umanitari - e il permesso alle associazioni per i diritti umani di entrare in Siria. Risulta quindi palese l'uso di due pesi e due misure.
Tuttavia, il caso siriano presenta differenze sostanziali con quello libico, in quanto un intervento armato della Nato potrebbe scatenare un effetto domino a livello internazionale. Innanzitutto, come dimostrato dal recente veto posto alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, la Siria è spalleggiata da Russia e Cina, le quali si erano invece astenute al momento di votare l'attacco alla Libia. Di conseguenza, sia Stati Uniti che Unione Europea non hanno nessuna intenzione di creare attriti con i due giganti economici: il dragone cinese è detentore di una sostanziosa fetta di debito statunitense, mentre la Russia è un importante fornitore energetico e conta numerosi clienti nell'Ue.
Inoltre, il porto di Tartus in Siria consente libero accesso alla marina russa, procurando perciò uno sbocco sul Mediterraneo a Putin; infine, la Siria e un importante acquirente di armi russe, costituendo dunque un partner economico non secondario. Tuttavia, è piu probabile che l'interesse di Russia e Cina per la Siria sia indirettamente determinato dai rapporti che intercorrono tra il duo sino-russo e l'Iran. Quest'ultimo, difatti, è il principale alleato di al-Asad nella regione, e ha stabilito ottime relazioni con i due Stati succitati.
La Russia è un importante fornitore di materiale e know-how per l'arricchimento dell'uranio, mentre la Cina, per sostenere la propria crescita, ha siglato vari contratti per l'importazione di petrolio iraniano. Ne consegue che un eventuale attacco alla Siria potrebbe avere grosse ripercussioni sui rapporti con Mosca e Pechino. A proposito di Iran, la tensione accumulata con gli Stati Uniti riguardo l'implementazione del programma nucleare potrebbe suscitare reazioni impreviste in caso di intervento in Siria.
Quest'ultima eventualità coinvolgerebbe anche Israele, principale alleato statunitense nel Medio Oriente e acerrimo nemico di Ahmadi-Nejad, che potrebbe approfittare dell'occasione per bombardare i siti nucleari iraniani (operazione da tempo agognata). Di conseguenza, l'Iran potrebbe agire per rappresaglia in vari modi: innanzitutto attaccando lo stato sionista, ma anche chiudendo lo stretto di Hormuz, da cui transita un quinto del petrolio mondiale. 
In quest'ultimo caso, il conflitto non coinvolgerebbe solo gli attori succitati, ma anche le petromonarchie del Golfo Persico, in particolare l'Arabia Saudita, la quale rappresenterebbe per l'Iran un ulteriore nemico con cui confrontarsi. Un intervento in Siria comporterebbe anche la reazione di attori all'apparenza minori, ma in grado comunque di incrementare l'instabilità nella regione mediorientale: Hamas e Hizbullah. Difatti, entrambi sono sostenuti dall'Iran e, soprattutto, sono nemici storici di Israele.
Pertanto, Ahmadi-Nejad potrebbe contare su due alleati fondamentali nella lotta contro Netanyahu. Si nota, dunque, come la Siria occupi un ruolo di primo piano nello scacchiere geopolitico mediorientale poiché un intervento militare occidentale potrebbe scatenare un conflitto di enormi proporzioni. Al contrario, la Libia di Gheddafi rivestiva un'importanza secondaria nella regione, come dimostra il sostanziale disinteresse da parte dei media seguito alla caduta del rais.
Molto probabilmente, l'intervento in Libia si può ricondurre a due fattori di primaria importanza, che contribuirebbero in maniera ulteriore a spiegare il ritardo nei provvedimenti contro il regime di al-Asad. In primo luogo, la figura dello stesso Gheddafi: al di la dei buoni rapporti che intratteneva con Berlusconi, il leader libico era considerato un ostacolo dai principali Stati europei e dagli Stati Uniti. In Gran Bretagna l'attentato di Lockerbie non e mai stato né dimenticato né perdonato.
La Francia stessa aveva un conto aperto con il rais, tanto che è stata provata la presenza di aerei francesi la sera dell'incidente di Ustica, dove probabilmente il bersaglio era proprio l'aereo del dittatore libico. Infine, gli Usa avevano già bombardato la Libia nel 1986 e la rimozione di Gheddafi era il loro obiettivo principale da molti anni. Al contrario, al-Asad non ha mai creato problemi a Stati Uniti e Ue, pertanto non viene considerato un grosso ostacolo da rimuovere. 
Anzi, la repressione attuata nei confronti dei gruppi islamisti, Fratelli musulmani in primis, è stata implicitamente appoggiata dall'Occidente, da sempre timoroso riguardo la possibile installazione di governi islamisti nel Medio Oriente. Il secondo fattore che spinse per l'intervento in Libia fu quasi sicuramente il petrolio. Più leggero e di maggiore qualità rispetto a quello importato dall'Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, faceva gola soprattutto a francesi e britannici.
La rinegoziazione dei contratti conseguente la caduta di Gheddafi ha, da un lato, penalizzato l'Italia (importante partner del rais) e, dall'altro, favorito Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti grazie all'impegno profuso nella rimozione del tiranno. La Siria, invece, non possiede risorse energetiche in quantità rilevante, cosicché non suscita grande interesse in Occidente. Alle ragioni politiche ed economiche, si sommano quelle ideologiche. Far cadere il regime di al-Asad, sciita, significherebbe lasciare spazio all'opposizione, costituita prevalentemente dai Fratelli musulmani sunniti, movimento che può contare su una migliore organizzazione interna e coerenza ideologica rispetto agli altri.
Se aggiungiamo che la maggioranza della popolazione è sunnita, comprendiamo quale potrebbe essere il risultato di un'eventuale turno elettorale. Inoltre, il movimento islamista potrebbe contare su un considerevole supporto dall'estero. In Egitto i Fratelli musulmani hanno appena vinto le elezioni, cosicché rappresenterebbero un partner importante; la stessa Hamas rappresenta la costola dei Fratelli musulmani in Palestina. Infine, l'Arabia Saudita appoggerebbe sia ideologicamente che finanziariamente un regime islamista sunnita in Siria; in tal modo, toglierebbe un partner importante all'Iran, baluardo dello sciismo nel Medio Oriente.
Tuttavia, tale eventualità vede la piena opposizione dell'Occidente e di Israele. Usa e Ue non gradirebbero l'instaurazione di un governo islamista e anti-occidentale, mentre Netanyahu si troverebbe circondato da governi meno accomodanti rispetto ai precedenti, quando i dittatori reprimevano i movimenti anti-israeliani come i Fratelli musulmani. La situazione libica, invece, presentava caratteristiche differenti: una volta rimosso il dittatore, difatti, il paese è piombato in una guerra civile, dove gli unici vincitori sono le compagnie petrolifere occidentali.
Alla domanda perché non si interviene in Siria, quindi, due sono le possibili risposte. La prima, troppo rischioso. Una serie di motivazioni politiche, economiche ed ideologiche contribuiscono a mantenere la situazione in fase di stallo. Nessun attore vuole rischiare di compiere il primo passo ed assumersi le responsabilita di un conflitto che potrebbe deflagrare ed espandersi in maniera rapida. La seconda, non è necessario. Il paese possiede poche o nulle risorse energetiche, Bashar al-Asad non ha mai dato fastidio a Usa ed Europa (al contrario di Gheddafi) e l'opposizione al regime è costituita da elementi anti-occidentali. La soluzione alla crisi siriana sembra quindi ancora distante.

Mauro Saccol

Nessun commento: