lunedì 22 settembre 2008

CASTELLO SVEVO. L'ALTRA FACCIA.

Basta poco per tornare al passato. Per ricordare chi ha vissuto eventi e situazioni che oggi sembrano solo polverosi e reconditi relitti. Basta passare davanti al plurisecolare castello Svevo di Augusta per rimembrare quanti l’hanno odiato, amato, commiserato. Per settecento anni la struttura ha visto imprigionare regine, saccheggiare ricchezze, demolire torri. Ma sono stati soprattutto i suoi ultimi ottant’anni di vita attiva quelli più intensi. Da quando sul finire dell’ottocento, per arrivare al vicino 1976, il castello è stato adattato a casa penale, gli si è aperto un mondo che non può essere dimenticato. Sono stati migliaia i detenuti passati fra le sue umide mura. E altrettante le storie di disperazione, rassegnazione, follia, speranza, rabbia, che hanno segnato la vita anche di chi era dall’altra parte della barricata: le guardie penitenziarie. Una di esse, Paolo Napoli, appuntato di 83 anni congedato con lode l’1/4/1976, originario di Piazza Armerina, per vent’anni ha prestato servizio nella casa penale di Augusta. I ricordi di ciò che ha visto sono ancora indelebili nella sua mente. Ricorda con commozione don Antonio Giardina, il cappellano del penitenziario di Augusta in servizio dal 1956 da poco scomparso. Ricorda la sua sensibilità, il suo carisma, la sua bontà, la serenità con cui ha forgiato due generazioni di augustani che lo hanno avuto come “mitico” professore di religione. Tuttavia, come il sacerdote stesso amava ribadire, è stato fra i detenuti che ha trovato quell’umanità nuda e sofferente di chi non ha bisogno di indossare maschere. Fu padre Giardina a rinvigorire le speranze di tante anime. Come quando, per la prima volta nella storia delle celebrazioni patronali, riuscì ad ottenere un concerto della banda musicale cittadina fra i detenuti. Come quando, in momenti difficili quali la rivolta del ’75, non perse la fiducia dei detenuti che, nel caso specifico, in principio consentirono solo a lui di parlamentare. E Paolo Napoli non dimentica nemmeno le “ventiquattro ore da tregenda” di quell’1/6/1975. Quel giorno nove detenuti, per ottenere l’accoglimento di un pacchetto di richieste alcune delle quali non collimanti con il regolamento carcerario, inscenarono una rivolta prendendo diversi ostaggi. Armati di tutto punto ne ferirono uno gravemente; e minacciarono di ferirne uno ogni mezz’ora. Ma non avevano vie di fuga. Ogni scappatoia era stata coperta da rinforzi giunti da tutta la provincia. Si aspettava solo di decidere come sedare l’insurrezione. In molti volevano fare irruzione armata; mentre padre Giardina, come detto sopra, aveva già sollecitato i detenuti a dialogare con le autorità. Fu proprio Paolo Napoli, fra gli altri, ad opporsi all’eventualità di un’irruzione armata che, a suo dire, si sarebbe conclusa in un bagno di sangue. E non vedendo alternative, furono i rivoltosi a consegnarsi alle forze dell’ordine; venendo condannati in primo grado a sei anni di carcere supplementari ciascuno. Ma perché si rivoltarono? Perché corsero un rischio tanto grande? Alcuni erano ergastolani. Chiedevano la revisione delle loro sentenze. Altri erano stufi delle condizioni in cui erano costretti. Pur potendo stare all’aria aperta e praticare diverse attività, il cibo era scarso; le celle singole tetre e piccolissime; si passava ancora la notte accanto a puzzolentissimi buglioli. E tutto questo si conciliava con un ordinamento giuridico nazionale ancora teso a punire il condannato più che a rieducarlo. E poco poteva la grande competenza dell’allora direttore della casa penale di Augusta il dott. Francesco Chimento. I detenuti morivano dal caldo d’estate; pativano il freddo d’inverno. E spettava la cella di rigore a chi veniva sorpreso a sfilacciare le coperte per prodursi un cappello caldo. Ma l’angoscia era soprattutto di quegli ergastolani che avevano smesso di vivere al di fuori del penitenziario; perché le loro famiglie, sovente non siciliane, non potevano permettersi di andarli a trovare. La grazia non arrivava mai. Com’erano lontani i tempi degli indulti di oggi! Nel penitenziario si trovava anche chi uccideva ancora; chi tentava di fuggire rischiando la vita; chi si dimenticava della vita al di fuori e restava sereno; chi impazziva. E quanto erano apprezzate le opere di misericordia che, soprattutto da donne volontarie, venivano praticate nella casa di reclusione distribuendo viveri e beni di prima necessità! La dignità dei detenuti era un valore insopprimibile. E lo sa benissimo l’appuntato Paolo Napoli: “sempre dalla parte dei familiari, costretti a file interminabili, magari dopo viaggi altrettanto lunghi, per vedere i propri cari”. Tutto è finito nel 1976. Su disposizione del generale Dalla Chiesa la struttura, vetusta e inadatta ad ospitare centinaia di detenuti, viene chiusa. Una decisione inevitabile. Ed oggi, guardando le diroccate mura del castello, pare difficile immaginare questo passato. Ma basta solo parlare con chi lo ha vissuto per comprendere quanto sia stato intenso e vigoroso. Tutto ciò non deve essere dimenticato.
Fabrizio Vaccaro
con la collaborazione di Marco Pustizzi

1 commento:

Salvo Ternullo ha detto...

Ho già letto l'articolo dal giornale della scuola (io a differenza di molti lo leggo e non lo straccio. Anzi volevo segnalarti che tu dopo aver lottato tanto Fabrizio per il giornale, vieni ringrazato da appallottolamenti vari).
Hai ricordato che il Castello Svevo (che nell'Augusta di fine ottocento era "Antico Castello" vedi varie cartoline) prima di essere rivalutato è stato dal 1890 circa al 1978 se non sbaglio, casa di detenzione. Per l'Augusta del '900 non è mai stato castello. E' sempre stato "u cacciri" (non so se ho scritto bene in dialetto). Poi lo so bene anche perchè mio nonno materno ha lavorato per decenni come istruttore per i carcerati. Lui era tornitore all'arsenale della marina.

Ma c'è la faccia negativa. Se c'era una cosa che comunque poteva aumentare le possibilità di Augusta a livello culturale in vista del nuovo secolo era certamente il castello. Ma la condizione del tempo fece si di deturpare una traccia della storia di Augusta.

Fatto sta che non bisogna dimenticare quell'"Altra faccia" del Castello che è stato il carcere. Perchè è la più vicina a noi, perchè non esistono ora persone che portano testimonianza dell'antico castello. Perchè per Augusta quello è e rimarrà per sempre "u cacciri".